La ricorrenza è di quelle impegnative: il trentennale dell’uscita di London Calling, uno dei dischi più influenti nella storia del rock. Difficile occuparsi dei Clash, oggi. Dopo la morte di Joe Strummer l’immagine della band giace sotto il pesante cumulo della retorica barricadiera, come se le sue radici affondassero solo e soltanto in quel combat-rock divenuto icona che la storia ha provveduto a istituzionalizzare. Sbagliato. I Clash, figli della West London dei medi anni Settanta, sono stati e restano un magnifico gruppo punk, una garage-band che insieme a Pistols, Damned, Jam e Generation X ha premuto il tasto rosso, quello della deflagrazione. Questo sono stati Mick Jones, Joe Strummer, Paul Simonon e Topper Headon: una rock’n’roll band che ha fatto dell’urgenza del primo punk la propria arma, insieme a un’ingente dose di talento che ha consentito loro di staccarsi subito dal gruppo. Fin da quel primo album nel quale cantavano, non a caso, “Niente Elvis, Beatles o Rolling Stones nel 1977”. È lì che nasce il mito dei Clash. Poi arriverà il resto: lo schierarsi politicamente, il terzomondismo, l’interesse per le contaminazioni culturali e stilistiche, le 16 serate sold-out consecutive al Bonds di Times Square di New York, gli anni Ottanta. Questo dopo, quando la maturità avrà preso il sopravvento sul sacro furore dei primi anni. Al di là di tutto resta, dopo più di trent’anni, l’immagine di una band fiera e ispirata, quella che prima della svolta antiglobalista (anch’essa pionieristica) e prima di riallacciare definitivamente i ponti col passato, si affacciava dalla sala prove di un magazzino abbandonato di Camden per urlare, prima a Londra poi al mondo intero, il proprio ruvido, ingenuo, appassionato “I Wanna Riot”.